Novità in libreria: Raccontami dei fiori di gelso, di Aline Ohanesian

Una storia per raccontare la tragica sorte di centinaia di migliaia di armeni. Il ricordo di una donna che diventa il ricordo di più di un milione di persone, deportate e uccise durante il genocidio pianificato dal sultano ottomano alle soglie della Prima guerra mondiale.

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso (Garzanti) è il tributo che Aline Ohanesian offre alla memoria di questo popolo. Scrittrice all’esordio, anche lei trova le sue origini nel popolo armeno.

Il filo rosso della storia è il ricordo. Quello di Seda, ora anziana donna che vive negli Stati Uniti, in un ricovero popolato di testimoni del massacro armeno come lei, e che fa di tutto per dimenticare. Seda ha sotterrato la memoria – e con lei la sofferenza – sotto una spessa corazza, impenetrabile persino per l’adorata nipote, che rappresenta tutto ciò che è rimasto della sua famiglia.

Ma un giorno, al ricovero, si presenta un giovane turco di nome Orhan che dice di essere alla ricerca di risposte. Suo nonno Kemal è appena morto e ha lasciato la casa di famiglia proprio a Seda. La famiglia turca non capisce perché la propria casa debba finire nelle mani di una sconosciuta, e Orhan è arrivato negli Stati Uniti per conoscere Seda e scoprire il motivo del lascito del nonno.

Orhan riesce a vincere la reticenza di Seda e a farsi raccontare tutta la storia: la storia di una famiglia di cristiani armeni, rispettata e con una buona posizione sociale, quella di un giovane Kemal, musulmano, innamorato della figlia del suo datore di lavoro, e quella di Seda, che a poco a poco scopre di ricambiare questo amore sbocciato all’ombra di un gelso in fiore.

Ma l’idillio si interrompe troppo presto. È il 1915 e il genocidio armeno ha inizio: la famiglia di Seda viene espropriata dei suoi beni e costretta a intraprendere una marcia della morte, una deportazione che costringerà la giovanissima Seda ad assistere impotente al perpetrarsi di una violenza senza senso contro il suo popolo e la sua famiglia. Il suo coraggio sarà la sola arma che le permetterà di sottrarsi alla morte, ma non basterà a cancellare le cicatrici che il dolore ha inflitto alla sua anima. La sua vita è destinata ad incrociarsi di nuovo con quella di Kemal, ma in un modo che lascia al lettore un sapore dolceamaro.

Questa è una storia che va letta perché sia possibile coglierne tutte le sfaccettature. Nell’insieme delicata, cruda quando serve, rispettosa del dolore di un popolo che ha subito un’ingiustizia spesso dimenticata: è questa la scrittura di Aline Ohanesian. Il libro alterna il racconto del passato alle azioni dei personaggi nel presente, lasciando il giusto tempo per assimilare il racconto di una tragedia che merita di essere ponderata.


Presentazione

Quando i ricordi ritornano alla mente, a volte non si è preparati ad accoglierli. Soprattutto se si è fatto di tutto per far tacere la loro voce, per nascondere le sensazioni che portano con sé. È così per Seda, che credeva di aver finalmente seppellito il passato per sempre. Ma ora è tornato e parla del paese da cui si è allontanata senza voltarsi indietro. Parla della Turchia dove affondano le sue radici, il paese di cui sente ancora il profumo delle spezie e il rumore dei telai al lavoro nell’azienda della sua famiglia. Da lì proviene il giovane Orhan, che adesso vuole delle risposte. Vuole sapere perché suo nonno, Kemal, ha lasciato la loro vecchia casa a Seda, una sconosciuta che vive in America. Lei capisce che è arrivato il momento di scendere a patti con la sua memoria e con quella colpa che non ha mai confessato a nessuno. Decide di affidare a Orhan la sua storia. La storia di lei ancora ragazzina che si innamora di Kemal all’ombra di un grande albero di gelso, i cui rami si innalzavano fino a voler raggiungere il cielo. Un amore spezzato dalle deportazioni degli armeni, all’alba della prima guerra mondiale. Un amore che ha costretto Seda a scelte difficili i cui rimpianti non l’hanno mai abbandonata. Solo con Orhan ha trovato il coraggio di riaprire quelle vecchie ferite. Di rivelare una verità da cui possa nascere una nuova speranza. Perché il passato, anche se doloroso, va ascoltato e deve insegnare a non dimenticare. Raccontami dei fiori di gelso è un esordio che ha conquistato gli editori di tutto il mondo. Venduto in 15 paesi, è stato recensito dalla stampa più autorevole. Un romanzo profondo e intenso che dà voce alla Storia quando diventa più oscura e scuote le coscienze. Un romanzo su uno dei più crudeli genocidi che l’uomo abbia mai commesso. Un romanzo in cui l’amore resiste agli urti del tempo e alle ferite della guerra.

Aline Ohanesian, nata in Kuwait da genitori armeni, vive in California con il marito e i figli. Il suo romanzo, segnalato da tutte le classifiche dei librai americani e pubblicato in tutto il mondo, è stato selezionato per il Flaherty-Dunnan First Novel Prize e finalista del PEN/Bellwether Prize for Fiction.

PARTE PRIMA
1990

1.
UN’ASCIA NELLA FORESTA

L’avevano trovato all’interno di uno dei diciassette calderoni in cortile, immerso in una tintura indaco di due tonalità più scura del cielo estivo. Le braccia e il mento erano appoggiati al bordo di rame, mentre il resto di Kemal Türkoğlu, novantatré anni, era di un grazioso azzurro pallido. A Orhan hanno detto che i vecchi del paese se ne stavano davanti al cadavere fradicio, sgranando i loro rosari, mentre i figli aspettavano stringendo in mano i dadi delle partite di backgammon interrotte. La decenza vietava che fossero presenti spettatrici donne, ma nel giro di qualche ora la notizia si era diffusa tra le cucine e tra i banchi di vendita delle botteghe. Il dede* di Orhan, nudo tranne le brache, si era immerso in una botte di tintura per tessuti fuori dalla loro casa di famiglia.

Orhan sprofonda nel sedile posteriore dell’auto privata, un lusso che si è concesso quando l’orrore di sette ore di viaggio in autobus per tornare al paese ha avuto la meglio sul dolore. Voleva piangere da solo, lontano dalle galline, dai vecchi, dai venditori ambulanti o, peggio ancora, dai conoscenti casuali che s’incontravano solitamente su un autobus diretto in Anatolia centrale. Poteva permettersi un piccolo lusso, ma l’auto si è presentata con un’ora di ritardo, l’aria condizionata guasta e il conducente che puzzava di sudore e di acqua di colonia dozzinale. Orhan si accende una sigaretta e chiude gli occhi per schermarsi dall’odore pungente.

«Va in visita alla famiglia?» chiede l’autista.

«Sì», risponde Orhan.

«È gentile da parte sua. Tanti giovani lasciano il loro paese e non vi fanno più ritorno.»

La verità è che sono passati tre anni dalla sua ultima visita. Se Dede avesse avuto il buonsenso di andarsene da quel posto sperduto, non avrebbe motivo di ritornarci, adesso. L’auto esce dalla strada principale e s’immette in una strada da poco asfaltata per dirigersi verso la città di Sivas, alla cui periferia si trova il paese di Karod. Il conducente rallenta e apre un finestrino, lasciando aleggiare all’interno del veicolo il profumo del suolo carico di aromi. Diversamente da Istanbul, la cui maestosità si riflette nel Bosforo, l’Anatolia centrale è la quintessenza dell’altra Turchia, dove è molto più difficile imbattersi in tracce di grandiosità o di progresso. Qui i pastori seguono i belati delle capre dal pelo lungo e le donne tarchiate del paese portano sulla schiena fascine di legna da ardere. Il tempo e il progresso sono parenti ormai lontani che di tanto in tanto si fanno vivi con una lettera. Le strade antiche della provincia di Sivas, che in passato facevano parte della famosa Via della Seta, sono state calpestate dai piedi degli assiri, dei persiani, dei greci e dei romani. Legno marcio, lastre di stagno corrugato e blocchi di cemento sono posati in modo precario su antiche strutture bizantine in pietra la cui complessità architettonica rievoca un passato più glorioso. Strati su strati di terra e di civiltà spazzati via dalle acque torbide del Kızılırmak, il Fiume Rosso, producono un’estetica sedimentaria. Orhan pensa al caldo insopportabile delle estati anatoliche che fa da collante per tutti quei diversi strati.

«Ha fratelli o sorelle?» chiede l’autista.

«No», risponde Orhan.

«Solo i genitori, allora?» domanda lanciando un’occhiata dallo specchietto retrovisore.

«Mio padre, mio nonno e una zia», dice Orhan guardando il paesaggio arido. Com’è possibile che, senza una struttura che vi gravi sopra, il terreno sia così pesante e l’atmosfera così compressa da rendere faticoso respirare? Sono stati proprio quei campi, oberati da una storia che non era in grado di definire, a dargli l’idea di usare per la prima volta la Leica di Dede. Intorno ai quindici anni Orhan scoprì che se sfocava abbastanza l’immagine nella lente, Karod non aveva più un’aria minacciosa. Attraverso la lente, i declivi e le valli della sua infanzia cominciarono ad assomigliare a quadri astratti, ampie pennellate di giallo e di verde, macchie nascoste di lavanda, sullo sfondo di un cielo azzurro e arancione in perenne mutazione. Solo più tardi si rese conto che imponeva un significato al mondo a seconda di come sceglieva di catturarlo. Quelle prime fotografie erano simili a farfalle sospese su lastre di vetro.

«Sono cresciuto vicino a Sivas», continua il conducente. «Qual è il suo cognome? Magari lo conosco.»

In Turchia non si può sfuggire a questo bisogno costante di trovare una reciproca collocazione. Era una delle poche cose che Orhan amava di quando viveva in Germania: l’anonimato. «Türkoğlu», dice infine.

L’espressione dell’autista, incorniciata nello specchietto retrovisore, cambia. «Le faccio le mie condoglianze. Kemal Bey era un uomo straordinario. È vero che ha combattuto a Ctesifonte?»

Orhan annuisce facendo un altro tiro dalla sigaretta.

«Non ci sono più persone così. Quella generazione era piena di uomini veri. Hanno combattuto contro tutta l’Europa e la Russia, hanno fondato una repubblica e messo in piedi intere industrie. Mica male, eh?»

«Sì», ammette Orhan. «Mica male.»

«Il giornale sostiene che si è immerso nella tintura a scopi medici», dice il conducente.

Non è la prima volta che Orhan sente questa teoria assurda. È una storia inventata dalla sua astuta zietta, non c’è dubbio. Benché Dede fosse un eroe venerato della prima guerra mondiale, divenuto poi uomo d’affari, era anche un personaggio eccentrico che viveva in un luogo in cui le eccentricità andavano spiegate o insabbiate.

In paesi come Karod ogni persona, oggetto e pietra devono avere una specie di rivestimento, uno strato protettivo fatto di tessuto, mattoni o polvere. Gli uomini e le donne si coprono la testa con zucchetti o veli. Questi modelli di decenza si applicano anche agli animali, ai discorsi, alle idee. Perché la morte di Dede avrebbe dovuto costituire un’eccezione?

L’auto svolta a sinistra in una strada ghiaiosa con delle buche che conduce all’interno. Orhan cerca il palo di legno che un tempo indicava il nome del paese in discrete lettere bianche dipinte a mano, ma non lo trova da nessuna parte. Un ragazzino con una camicia arancione brillante e corti pantaloni verdi cammina dietro una mandria di vacche. Con un lungo ramo le spinge per la groppa, dirigendole in uno dei numerosi e stretti vicoli che s’infilano tra le case incrostate di fango.

«È qui?» chiede l’autista.

«Sì», dice Orhan. «Segua questa strada finché non vede la casa con le colonne grandi.»

Il rumore della ghiaia che scricchiola cessa quando l’auto si ferma. Orhan spegne la sigaretta. Sente il canto lamentoso delle prefiche e il loro ritmo lo attira fuori dalla macchina: due, forse tre, voci femminili cariche di una specie di dolore e vulnerabilità che si sviluppano solo con la pratica. La casa di famiglia a due piani sarebbe, secondo qualsiasi standard, una vecchia rovina scrostata, ma in questa zona depressa e dimenticata dell’Anatolia centrale è considerata solida e grandiosa. Uno strato sottile di intonaco color senape avanza e retrocede su pietre grigio gesso tagliate a mano, che a Orhan ricordano un frutto rinsecchito e sbucciato a metà. La casa di aspetto vittoriano, completa di soggiorno e scantinato, è il luogo di nascita della Tarik Inc., che aveva esordito come un insieme di laboratori e che, negli ultimi sessant’anni, si è trasformata in una fabbrica automatizzata dedita all’esportazione di tessuti fino all’Italia e alla Germania. Secondo la leggenda familiare, tra queste mura in rovina il bisnonno di Orhan aveva tessuto un kilim per il sultano in persona. Questo era accaduto prima che l’impero diventasse una repubblica, prima che la democrazia e l’occidentalizzazione rivoluzionassero il significato dell’essere turchi. Nel cortile a sinistra della casa gli enormi calderoni di rame fanno la guardia alla struttura in sfacelo. Nel corso dei decenni sono passati dal contenere la tintura per i tessuti all’ospitare i bambini che giocano a nascondino e al conservare le ceneri dei narghilè e delle sigarette. Questi recipienti hanno custodito molti pezzi e frammenti della vita di Dede e forse è giusto che abbiano accolto anche il suo ultimo respiro.

Orhan intreccia un sentiero familiare attorno ai calderoni. Tutti vuoti tranne uno che contiene un intruglio scuro simile a tintura, apparentemente più nero che blu, il colore di un addio.

Sopra l’intelaiatura di legno della porta principale, un arco di pietra con incise una scritta indecifrabile e la data 1905 accoglie gli ospiti in un’altra dimensione temporale. Nessuno sa davvero che cosa proclamino quelle lettere sopra la porta o in quale lingua siano scritte. Orhan china il suo metro e ottanta di statura per infilarsi in casa e tuffarsi in un mare di abitanti della città e del paese venuti a rendere omaggio e a pascersi di cibo e pettegolezzi. Il capo delle prefiche – una donna ricca, a giudicare dai denti d’oro – orchestra un’atmosfera potente di lamenti intonando un canto del Corano.

«È annegato», sussurra qualcuno.

«Se è annegato perché non ha il viso blu?» chiede un altro.

«Guarda come ha piegato ordinatamente i vestiti», dice un altro ancora, come se ciò dimostrasse qualcosa.

«A quanto pare, la tintura medica fa furore a Istanbul.»

«È sempre stato un uomo in anticipo sui tempi.»

Orhan riconosce solo una manciata di persone nella stanza. Chiunque abbia un po’ di buonsenso o di prospettive ha abbandonato Karod da tempo, liberandosene come di una giacca che gli stava stretta. Pochi uomini e donne anziani, i genitori invecchiati dei suoi amici d’infanzia, persone che gentilmente chiama zia e zio, gli fanno dei buffetti in faccia e gli stringono la mano. Le ragazze del paese, nessuna delle quali ha più di vent’anni, si aggirano per la stanza offrendo tè e biscotti su vassoi di plastica, la testa coperta da veli neri che incorniciano palpebre abbassate per pudore. Sotto i vestiti di cotone dai colori sgargianti indossano i tradizionali calzoni cascanti, gli şalvar. Orhan crede di riconoscerne una o due. Improvvisamente consapevole del suo abito e dei suoi mocassini italiani, afferra una tazza di tè e si dirige in soggiorno, dove ogni superficie piana – i tavoli, la libreria, le mensole del camino e persino la televisione – è ricoperta di centrini fatti a mano. I loro intricati disegni geometrici e floreali in varie sfumature di beige conferiscono una certa decenza a ogni superficie orizzontale esposta.

Una ragazza giovane, affiancata su entrambi i lati da donne più mature – tra le quali riconosce la sensale di matrimoni del paese –, gli porge in silenzio un vassoio di baklava*.

«Mashallah», dice la sensale con ammirazione, scandagliandolo con gli occhi per tutta la lunghezza del corpo. «Abbiamo saputo che ha noleggiato un’auto privata.» Fa un cenno solenne di compiacimento con la testa. Mentre la ragazza alla sua sinistra tiene gli occhi incollati al vassoio di plastica con i dolci, gli rivolge un sorriso cospiratorio. Orhan alza una mano per protestare, sicuro che il gesto sia sufficientemente universale per declinare sia il baklava che la ragazza.

Sei anni prima, quando Orhan era tornato per la prima volta dalla Germania, le stesse «ziette» lo scansavano come un lebbroso. Lo chiamavano «comunista» alle spalle e, a volte, anche in faccia. Adesso fanno sfilare le loro figlie nubili davanti a lui e fantasticano di diventare la suocera del nipote prodigo e dell’uomo d’affari di successo. La combinazione del loro disprezzo e di quello di suo padre l’aveva spinto a stabilirsi a Istanbul, dove nessuno sapeva nulla del suo passato. Per i suoi amici in città, la permanenza di Orhan in Germania non era stata un esilio forzato e vergognoso, ma una tappa legittima della formazione di un uomo ricco.

La ragazza è ancora in piedi davanti a lui e regge imbarazzata il vassoio di baklava tra le mani callose, che sembrano molto più vecchie di lei. Queste ragazze sono di una specie completamente diversa rispetto alle gazzelle che costituiscono l’élite sociale di Istanbul, una folla moderna di cui fa parte anche l’ex fidanzata di Orhan, Hülya. Forse, vista l’eredità imminente, Orhan potrebbe fare una corte serrata a Hülya, con il suo eccellente lignaggio e l’abbronzatura perfetta, nel modo in cui era abituata, e riconquistarla. Benché in base alle leggi turche sulle successioni la maggioranza del patrimonio di Dede debba andare senza dubbio a quell’incapace di suo padre, Orhan è certo che gli spetterà qualcosa. Hülya potrebbe trasferirsi nel suo appartamento, le cui pareti antiche sono coperte da quella che gli amici snob di lei reputavano grande arte. Avrebbe dovuto comprare una vetrinetta per tutte le sue adorate reliquie dell’Occidente: un piatto da collezione con la faccia di Lady Diana al centro e la sua raccolta di album dei Duran Duran esposta in grande evidenza sullo scaffale. Tutti i sintomi del capitalismo occidentale senza le sue fastidiose virtù, tipo la libertà di espressione o i diritti delle minoranze.

Orhan beve quel che resta del tè, posa la minuscola tazza sul vassoio di baklava della ragazza e si sposta nel salotto, dove c’è meno ressa. Nella stanza ci sono solo tre persone: sua zia, suo padre e un uomo in abiti moderni in cui riconosce l’avvocato di Dede. Siedono in un silenzio impacciato che non viene disturbato nemmeno dal suo arrivo alla porta. La zia Fatma è seduta contro il muro in fondo, con il suo solito abbigliamento – un vestito scuro da contadina a maniche lunghe di viscosa sugli şalvar sformati –, e fa del suo meglio per restare invisibile. Orhan è sorpreso dal velo di cotone nero che le copre la testa e le incornicia il volto, simile a una prugna secca. Sebbene sia abitudine per le donne del paese di una certa età coprirsi la testa, sua zia non è mai stata il tipo da seguire le convenzioni.

Fatma tiene in equilibrio sulle ginocchia un grande vassoio d’alluminio e intanto svuota all’interno una dozzina di minuscole zucche. Le sue mani lavorano a un ritmo serratissimo, ma Orhan sospetta che ascolti con grande attenzione ogni parola detta. Si china e le dà un rapido bacio sulla guancia. Quando lo vede, la sua faccia si apre in un sorriso e rivela una bocca piena di denti d’oro. Orhan occupa in silenzio il posto più vicino a lei. La luce rimbalza dal vassoio alla sua bocca dorata e viceversa. Nell’aria aleggia odore di aglio e di peperoncino rosso. Fatma infila polpette di manzo tritato all’interno di ogni ortaggio, le gambe larghe per tenere fermo il vassoio. Le zucche gialle e verdi rilucono come gemme in una scatola di gioielli. Istintivamente, la mano di Orhan corre al centro del torace dove una volta teneva appesa la macchina fotografica, prima di ricordarsi che non ne ha una con sé. È un riflesso automtico che non si manifesta quasi mai a Istanbul, dove vive ora. Il suo corpo rammenta ancora quell’oggetto perduto da tempo come l’arto reciso di un amputato.

Probabilmente la sua Leica è in casa da qualche parte. Orhan non la usa da quando è stato arrestato, dodici anni fa, e non vuole nemmeno vederla. È un’amante esperta. Se si avvicinasse ancora a lei e premesse con un dito deciso il pulsante dell’otturatore, lei lo aprirebbe quel tanto da permettere alla luce di penetrare e poi lo chiuderebbe di nuovo. Produrrebbe quel suono familiare e inebriante, a metà strada tra un colpo secco e un gemito, e aspetterebbe di essere ricaricata da lui. Indubbiamente quell’azione sarebbe divina, ma finirebbe male. Finiva sempre male. L’ultima volta che aveva scattato una fotografia a Karod, il paese stava affrontando il colpo di stato militare del 1980. Orhan aveva solo diciannove anni. Era il contrasto stridente dei colori e della trama a interessarlo. Era così concentrato su quelle astrazioni da non riuscire a vedere il mondo circostante. Lo faceva la Leica, che gli rubava tutta la prospettiva.

Sì, molto meglio tenersene alla larga.

Orhan si sforza di non guardare suo padre seduto all’angolo opposto, sulla sedia preferita di Dede. Tiene un bastone in equilibrio sulle ginocchia e sgrana un komboloi, il rosario che gli pende dalla mano sinistra. È metà agosto e, come sempre, Mustafa Türkoğlu è vestito secondo gli standard rurali: zucchetto beige, camicia in tessuto Oxford, maglione senza maniche e una giacca sportiva di lana grigio scura combinata con gli şalvar sformati. Orhan non ricorda un periodo in cui suo padre non fosse vestito così. Il caldo soffocante del sole dell’Anatolia filtra attraverso la finestra, minacciando di risucchiargli l’ossigeno dai polmoni, ma suo padre resta seduto imperturbabile. Nulla, nemmeno la morte del genitore e tantomeno un po’ di caldo, può produrre il benché minimo cambiamento in quell’uomo.

Mustafa non si accorge della presenza di Orhan. I suoi occhi, due piccole biglie dure e piene di disprezzo, fissano dritto davanti a sé. Probabilmente è la posizione che ha assunto per tutta la giornata, durante il lungo servizio funebre e gli interminabili lamenti delle prefiche, la processione delle strette di mano e dei volti afflitti. Quando gli ospiti se ne vanno, torna a essere l’uomo rissoso di sempre. In tutti quegli anni di esilio era suo nonno che lo aveva sostenuto, gli aveva scritto lunghe lettere e aveva accettato le sue telefonate. Che ironia restare con suo padre, un ometto rabbioso la cui pelle bruciata dal sole si è indurita come il suo cuore.

Il notaio di Dede si schiarisce la voce. A Istanbul deve avere una bella scrivania di mogano, ma oggi il dottor Yılmaz è stato relegato su una sedia di legno dallo schienale dritto, così piccola che con le ginocchia praticamente si tocca il petto. È una testimonianza della notevole capacità che ha Mustafa di soggiogare il prossimo.

«Posso cominciare?» chiede il notaio.

Il padre di Orhan fa un cenno con la testa.

«Alla mia morte», legge il notaio, «lascio in eredità il palazzo di Nişantaşı a mio figlio Mustafa, con la clausola che mantenga la nostra amata Fatma Cinoğlu per tutta la sua vita.»

La zia Fatma non reagisce quando viene menzionato il suo nome. A capo chino, continua implacabile a farcire le zucche.

«La totalità del mio patrimonio, incluse le fabbriche tessili di Ankara e Izmir, oltre che tutte le altre proprietà e gli altri beni appartenenti alla Tarik Incorporated, sarà affidata a mio nipote, Orhan Türkoğlu.»

Queste parole investono Orhan come una secchiata d’acqua calda. Orhan si sente galleggiare nel loro calore e la tensione nei suoi muscoli si rilassa. Tranne che per il rumore della zia Fatma che raschia, il mondo e tutti i suoi suoni annegano nelle sillabe che scorrono dalle labbra del notaio. Ecco come ci si sente a essere riconosciuti. Ora l’azienda è completamente sua. Non è ciò che si aspettava. Poiché le leggi di successione turche sono ancora pesantemente influenzate dalla Sharia islamica, potrebbe anche non reggere in tribunale, ma è quello che suo nonno voleva.

Mustafa si china in avanti sulla sedia di Dede e, stringendo il bastone con entrambe le braccia, ha l’aria di un uomo sul punto di affogare. Ha le labbra serrate, come se trattenesse il respiro. Le parole di Dede contengono il disprezzo, che dura da una vita, di un padre per il figlio e, per un frammento di secondo, Orhan prova pena per lui.

«Infine, lascio in eredità la casa di famiglia ubicata nel paese di Karod a…» Il notaio fa una pausa, si guarda attorno nella stanza, fissando le persone una a una prima di procedere. «Alla signora Seda Melkonian.»

“Chi?”

«Che bastardo», dice il padre di Orhan. «Figlio di puttana!»

Orhan non capisce bene alla madre di chi siano diretti quegli insulti: se alla sua, a quella del notaio o a quella di Dede. O forse a tutte le madri, ovunque.

«Chi?» Orhan sente sé stesso chiedere.

«Tu ascoltami, pezzo di merda.» Mustafa si rivolge al legale facendo schizzare la saliva dai baffi. «Quel testamento te lo spingo su per il culo fino a fartici fare i gargarismi!»

Orhan prova una sensazione di nausea. Deve assumere il controllo della situazione, calmarsi e concentrarsi. Com’è possibile che Dede cacci sua zia e suo padre dall’unica casa che abbiano mai conosciuto? Orhan si alza e si guarda attorno nella stanza, esterrefatto.

«Non ha senso», dice.

 

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La Regione Emilia Romagna riconosce il genocidio armeno ed esprime solidarietà agli armeni.

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Anche la Regione Emilia Romagna, sulla scia di tante altre istituzioni italiane, ha espresso la propria solidarietà al popolo armeno con una risoluzione votata all’unanimità nella quale oltre a riconoscere la realtà storica del genocidio impegna la Giunta Regionale “a sostenere progetti di approfondimento storico e di divulgazione del genocidio del popolo armeno, oltre che a promuovere ogni possibile azione di riconciliazione fra il popolo armeno ed il popolo turco, partendo dal riconoscimento dei fatti storici e restituendone la memoria attraverso pubblici eventi, studi e qualsivoglia iniziativa di rievocazione”.

Il Consiglio per la comunità armena non può che esprimere la propria gratitudine ai firmatari la mozione ed a tutti i componenti dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia Romagna che con questo voto hanno dimostrato sensibilità e vicinanza ad un popolo che da più di cento anni lotta per il diritto alla Memoria, ed hanno aggiunto il loro nome a coloro che credono ancora nella verità e nella giustizia.

Consiglio per la comunità armena di Roma

 

>> Vai alla Risoluzione dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna

Presentazione delle Lettere Credenziali dell’Ambasciatore della Repubblica d’Armenia presso il Quirinale

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Palazzo del Quirinale 28/07/2016

La neo ambasciatrice della Repubblica d’Armenia presso il Quirinale S.E.  Victoria Bagdassarian,  ha presentato in data 28.07.2016, le sue Lettere Credenziali al Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.

Olimpiadi Rio 2016 – Tutta la squadra dell’Armenia: convocati, partecipanti e qualificati (Oasport.it 20.07.16)

 L’Armenia parteciperà ai Giochi Olimpici di Rio 2016 con una delegazione di 33 atleti in otto discipline differenti.

ATLETICA
Levon Aghasyan (salto triplo maschile)
Gor Nerkararyan (salto in lungo maschile)
Gayane Chiloyan (200 metri femminili)
Lilit Harutyunyan (400 metri ostacoli femminili)
Diana Khubeseryan (200 metri femminili)
Amaliya Sharoyan (salto in lungo femminile)

BOXE
Artur Hovhannisyan (pesi mosca leggeri maschili)
Narek Abgaryan (pesi mosca maschili)
Aram Avagyan (pesi gallo maschili)
Hovhannes Bachkov (pesi superleggeri maschili)
Vladimir Margaryan (pesi welter maschili)

GINNASTICA ARTISTICA
Artur Davtyan (maschile)
Harutyun Merdinyan (maschile)
Houry Gebeshian (femminile)

JUDO
Hovhannes Davtyan (60 kg maschile)

TIRO
Hrachik Babayan (carabina 10 m, carabina 50 m tre posizioni maschile)

NUOTO
Vahan Mkhitaryan (50 m stile libero maschile)
Monika Vasilyan (50 m stile libero femminile)

SOLLEVAMENTO PESI
Andranik Karapetyan (77 kg maschile)
Arakel Mirzoyan (85 kg maschile)
Simon Martirosyan (105 kg maschile)
Ruben Aleksanyan (+105 kg maschile)
Gor Minasyan (+105 kg maschile)
Nazik Avdalyan (69 kg femminile)
Sona Poghosyan (75 kg femminile)

LOTTA
Garnik Mnatsakanyan (57 kg libera maschile)
David Safaryan (65 kg libera maschile)
Georgy Ketoyev (97 kg libera maschile)
Levan Berianidze (125 kg libera maschile)
Migran Arutyunyan (66 kg greco-romana maschile)
Arsen Julfalakyan (75 kg greco-romana maschile)
Maksim Manukyan (85 kg greco-romana maschile)
Artur Aleksanyan (98 kg greco-romana maschile)

Il Grazie del Consiglio per la comunità armena di Roma alla città di Genova

LA MEMORIA STRUMENTO DI CRESCITA CULTURALE DEI POPOLI.

GLI ARMENI RINGRAZIANO IL CONSIGLIO COMUNALE DI GENOVA

Il recente voto all’unanimità del Consiglio comunale genovese che impegna l’amministrazione di Genova a dedicare una strada o piazza della toponomastica locale al ricordo del genocidio armeno del 1915 è motivo di orgoglio per la città e di grande soddisfazione per la comunità armena locale e nazionale.

Esso si innesta nel solco di radicati legami tra Genova e il popolo

armeno: ricordiamo al riguardo la votazione consigliare dell’ottobre del

1998 che fece della città una delle prime in Italia a riconoscere ufficialmente il genocidio del 1915 allorché sotto i colpi dell’Impero ottomano un milione e mezzo di armeni furono sterminati e la restante esigua parte della popolazione costretta ad abbandonare la terra degli avi.

Ma anche antichi legami storici, culturali, religiosi e commerciali come testimoniato ad esempio dalla chiesa di san Bartolomeo degli Armeni e dalla stessa piazza Armenia.

Ricordare a oltre cento anni quello che gli armeni chiamano “Il Grande Male” non significa ripercorrere didascalicamente una lontana, ancorché dolorosa, pagina di storia: ma piuttosto insegnare, soprattutto ai giovani, la cultura della Memoria come antidoto alla violenza e all’intolleranza.

Hitler, pianificando l’invasione della Polonia, così rispose a coloro che temevano per le conseguenze che oggi definiremmo “mediatiche”: «chi si ricorda più del massacro degli armeni?» Erano passati circa trent’anni e la tragedia di quel popolo ormai dimenticata; il genocidio armeno fu il primo del Novecento, il primo a essere dimenticato, il primo a essere negato. E ogni strage, ogni pulizia etnica, ogni olocausto altro non è se non il figlio di quel Grande Male.

Grazie dunque ai consiglieri genovesi per il loro gesto che ci auguriamo sarà presto seguito da un risultato concreto.

Consiglio per la comunità armena di Roma

 

IL TESTO INTEGRALE DELLA CONFERENZA STAMPA DI BERGOGLIO SUL VOLO DI RITORNO DALL’ARMENIA

Pubblichiamo il testo integrale della conferenza stampa di Papa Francesco durante il volo di ritorno dall’Armenia

Padre Lombardi:
Santo Padre, grazie mille di essere qui al termine di questo viaggio abbastanza breve ma molto intenso. Siamo stati contenti di accompagnarLa e adesso vogliamo farLe ancora, come al solito, un poco di domande, approfittando della Sua gentilezza. Abbiamo una lista di persone che sono qui iscritte a parlare, e possiamo incominciare, come al solito, con i colleghi dell’Armenia, perché diamo a loro la priorità. Il primo è Arthur Grygorian, della televisione pubblica armena.


Papa Francesco:
Buona sera! Vi ringrazio tanto per l’aiuto in questo viaggio e per tutto il vostro lavoro che fa bene alla gente: comunicare bene le cose vuol dire buone notizie, e le buone notizie fanno bene sempre. Grazie tante, grazie.

Arthur Grygorian, televisione pubblica armena:
(in inglese) Santo Padre, è risaputo che Lei abbia amici armeni. Lei aveva già contatti con le comunità armene in Argentina. Nel corso degli ultimi tre giorni, Lei – per così dire – è arrivato a toccare lo spirito armeno. Quali sono i Suoi sentimenti, le Sue impressioni, e qual è il messaggio per il futuro, le Sue preghiere per noi armeni?

Papa Francesco:
Bene, pensiamo al futuro e poi andiamo al passato. Io auguro a questo popolo la giustizia e la pace. E prego per questo, perché è un popolo coraggioso. E prego perché trovi la giustizia e la pace. Io so che tanti lavorano per questo. E io sono stato anche molto contento, la settimana scorsa, quando ho visto una fotografia del Presidente Putin con i due Presidenti armeno e azero: almeno si parlano. E anche con la Turchia: il Presidente della Repubblica [Armena] nel suo discorso di benvenuto ha parlato chiaro; ha avuto il coraggio di dire: “Mettiamoci d’accordo, perdoniamoci e guardiamo al futuro”. Questo è un coraggio grande! Un popolo che ha sofferto tanto! L’icona del popolo armeno – e questo pensiero mi è venuto oggi mentre pregavo un po’ – è una vita di pietra e una tenerezza di madre. Ha portato croci, ma croci di pietra –si vedono anche [le caratteristiche croci di pietra dette khachkar] –; ma non ha perso la tenerezza, l’arte, la musica, quei “quarti toni” tanto difficili da capire, e con grande genialità… Un popolo che ha sofferto tanto nella sua storia, e soltanto la fede, la fede lo ha mantenuto in piedi. Perché il fatto che sia stata la prima nazione cristiana, questo non è sufficiente; è stata la prima nazione cristiana perché il Signore l’ha benedetta, perché ha avuto i santi, ha avuto vescovi santi, martiri… E per questo si è formato nella sua resistenza quella “pelle di pietra” – diciamo così –, ma non ha perso la tenerezza di un cuore materno; e l’Armenia è anche madre. Questa era la seconda domanda. E veniamo alla prima, adesso. Sì, io avevo tanti contatti con gli armeni, andavo spesso da loro alle Messe; tanti amici armeni; o una cosa che di solito non mi piace fare per riposo, ma andavo a cena con loro, e voi fate cene pesanti! Ma sono molto amico, molto amico sia dell’arcivescovo Kissag Mouradian, della Chiesa Apostolica, sia di Boghossian, quello cattolico. Ma fra voi, più importante dell’appartenenza alla Chiesa Apostolica o alla Chiesa Cattolica, è l’“armenità”, e questo io l’ho capito in quei tempi. Oggi mi ha salutato un argentino di famiglia armena che, quando andavo alle Messe, sempre l’Arcivescovo lo faceva sedere accanto a me perché mi spiegasse alcune cerimonie o alcune parole che io non capivo.

Padre Lombardi:
Grazie mille, Santo Padre. Adesso diamo la parola a un’altra rappresentante armena che è la signora Jeanine Paloulian, di “Nouvelles d’Arménie”.

Jeanine Paloulian, “Nouvelles d’Arménie”:
(in francese) Grazie, Santo Padre. Ieri sera, all’incontro ecumenico di preghiera, Lei ha chiesto ai giovani di essere artefici della riconciliazione con la Turchia e con l’Azerbaigian. Vorrei chiederLe semplicemente – visto che tra qualche settimana Lei andrà in Azerbaigian – cosa Lei, cosa la Santa Sede può fare concretamente per aiutarci, per aiutarci a procedere. Quali sono i segni concreti. Lei ne ha fatti in Armenia. Quali sono i segni che Lei farà, domani, in Azerbaigian?

Papa Francesco:
Io parlerò agli azeri della verità, di quello che ho visto, di quello che sento. E incoraggerò anche loro. Io ho incontrato il Presidente azero e ho parlato con lui. E dirò anche che non fare la pace per un pezzettino di terra – perché non è una gran cosa – significa qualcosa di oscuro… Ma lo dico a tutti, questo: agli armeni e agli azeri. Forse non si mettono d’accordo sulle modalità di fare la pace, e su questo si deve lavorare. Ma di più non so cosa dire. Dirò quello che al momento mi viene nel cuore, ma sempre in positivo, cercando di trovare soluzioni che siano percorribili, che portino avanti.

Padre Lombardi:
Grazie mille. E adesso diamo la parola a Jean-Louis de la Vaissière, di “France Presse”. Credo che sia l’ultimo viaggio che fa con noi. Quindi siamo contenti di dargli la parola.

Jean-Louis de la Vaissière, “France Presse”:
Santo Padre, prima di tutto vorrei ringraziarLa da parte mia e da parte di Sébastien Maillard di “La Croix”. Noi andiamo via da Roma e volevamo di cuore ringraziare per questo soffio di primavera che soffia sulla Chiesa. Poi avevo una domanda: perché Lei ha deciso di aggiungere apertamente la parola “genocidio” nel suo discorso al Palazzo presidenziale? Su un tema doloroso come questo, pensa che sia utile per la pace in questa regione complicata?

Papa Francesco:
Grazie. In Argentina, quando si parlava dello sterminio armeno, si usava sempre la parola “genocidio”. Io non ne conoscevo un’altra. E nella cattedrale di Buenos Aires, sul terzo altare a sinistra abbiamo messo una croce di pietra a ricordo del “genocidio armeno”. E’ venuto l’Arcivescovo, i due Arcivescovi armeni, quello cattolico e quello apostolico, e l’hanno inaugurata. Inoltre, l’Arcivescovo apostolico nella chiesa cattolica di San Bartolomeo – un’altra [chiesa] – ha fatto un altare in memoria di San Bartolomeo [evangelizzatore dell’Armenia]. Ma sempre…, io non conoscevo un’altra parola. Io vengo con questa parola. Quando arrivo a Roma, sento l’altra parola, “il Grande Male” o “la tragedia terribile”, in lingua armena [Metz Yeghern], che non so pronunciare. E mi dicono che quella del genocidio è offensiva, che si deve dire questa. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso, sempre tre. Il primo, quello armeno; poi, quello di Hitler; e l’ultimo, quello di Stalin. I tre. Ce ne sono altri più piccoli. Ce n’è stato un altro in Africa [Rwanda]. Ma nell’orbita delle due grandi guerre, sono questi tre. E ho domandato, perché qualcuno dice: “Alcuni pensano che non è vero, che non è stato un genocidio”. Un altro mi diceva – un legale mi ha detto questo, che mi ha interessato tanto –: “La parola genocidio è una parola tecnica, è una parola che ha una tecnicità, che non è sinonimo di sterminio. Si può dire sterminio, ma dichiarare un genocidio comporta azioni di risarcimenti e cose del genere”. Questo mi ha detto un legale. L’anno scorso, quando preparavo il discorso [per la celebrazione del 12 aprile 2015 a Roma], ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, le ha usate tutt’e due: “il Grande Male” e “genocidio”. E io ho citato tra virgolette questa. E non è caduta bene: è stata fatta una dichiarazione del governo turco; la Turchia in pochi giorni ha richiamato ad Ankara l’Ambasciatore – che è un bravo uomo, un ambasciatore “di lusso” ci ha inviato la Turchia! – è tornato due o tre mesi fa… E’ stato un “digiuno diplomatico”… Ma ne ha il diritto: il diritto alla protesta l’abbiamo tutti. E in questo discorso [in Armenia], all’inizio non c’era la parola, questo è vero; e rispondo sul perché io l’ho aggiunta. Dopo aver sentito il tono del discorso del Presidente, e anche con il mio passato riguardo a questa parola, e dopo aver detto questa parola l’anno scorso in San Pietro, pubblicamente, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso, almeno. Ma lì io volevo sottolineare un’altra cosa, e credo – se non sbaglio – che ho detto: “In questo genocidio, come negli altri due, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte”. E questa è stata l’accusa. Nella Seconda Guerra Mondiale, alcune potenze avevano le fotografie delle ferrovie che portavano a Auschwitz: avrebbero avuto la possibilità di bombardare, e non l’hanno fatto. E’ un esempio. Nel contesto della Prima Guerra, dove c’è stato il problema degli armeni, e nel contesto della Seconda Guerra, dove c’è stato il problema di Hitler e Stalin, e dopo Yalta i lager e tutto questo, nessuno parla? Si deve sottolineare questo, e fare la domanda storica: perché non avete fatto questo? Voi potenze – non accuso, faccio una domanda. E’ interessante: si guardava, sì, alla guerra, a tante cose, ma quel popolo… E, non so se è vero, ma mi piacerebbe vedere se è vero, che quando Hitler perseguitava tanto gli ebrei, una delle cose che lui avrebbe detto è: “Ma chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei!”. Non so se è vero, forse è una diceria, ma io ho sentito dire questo. Gli storici cerchino e vedano se è vero. Credo di avere risposto. Ma questa parola, mai io l’ho detta con animo offensivo, piuttosto oggettivamente.

Padre Lombardi:
Grazie mille, Santità. Ha toccato un argomento delicato, con grande sincerità e profondità. Adesso diamo la parola a Elisabetta Piqué che, come Lei sa, è dell’Argentina, de “La Nación”.

Elisabetta Piqué, “La Nación”:
(in spagnolo) Complimenti, prima di tutto, per il viaggio. Vorrei chiederLe: sappiamo che Lei è il Papa, ma c’è anche Papa Benedetto, il Papa emerito. Ultimamente ci sono state delle voci, una dichiarazione del Prefetto della Casa Pontificia, mons. Georg Gänswein, che avrebbe detto che ci sarebbe un ministero petrino condiviso – se non mi sbaglio – con un Papa attivo e un altro contemplativo. Ci sono due Papi?

Papa Francesco:
(in spagnolo) C’è stata un’epoca nella Chiesa in cui ce ne sono stati tre! (ripete in italiano) In un certo periodo, nella Chiesa, ce n’erano tre! Io non ho letto quella dichiarazione perché non ho avuto tempo. Benedetto è Papa emerito. Lui ha detto chiaramente, quell’11 febbraio, che dava le sue dimissioni a partire dal 28 febbraio, che si sarebbe ritirato per aiutare la Chiesa con la preghiera. E Benedetto è nel monastero, e prega. Io sono andato a trovarlo tante volte, o al telefono… L’altro giorno mi ha scritto una letterina – ancora firma con quella firma sua – facendomi gli auguri per questo viaggio. E una volta – non una volta, parecchie volte – ho detto che è una grazia avere a casa il “nonno” saggio. Anche davanti a lui l’ho detto, e lui ride. Ma lui per me è il Papa emerito, è il “nonno” saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Mai dimentico quel discorso che ci ha fatto, ai Cardinali, il 28 febbraio: “Uno di voi sicuramente sarà il mio successore. Prometto obbedienza”. E lo ha fatto. Poi ho sentito – ma non so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma concordano con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi perché “questo nuovo Papa…”, e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato, perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo retto, retto, retto! Il Papa emerito. Poi, non so se Lei si ricorda, che io ho ringraziato pubblicamente – non so quando, ma credo durante un volo – Benedetto per aver aperto la porta ai Papi emeriti. 70 anni fa i vescovi emeriti non esistevano; oggi ce ne sono. Ma con questo allungamento della vita, si può reggere una Chiesa a una certa età, con acciacchi, o no? E lui, con coraggio – con coraggio! – e con preghiera, e anche con scienza, con teologia, ha deciso di aprire questa porta. E credo che questo sia buono per la Chiesa. Ma c’è un solo Papa. L’altro… o forse – come per i vescovi emeriti – non dico tanti, ma forse potranno essercene due o tre, saranno emeriti. Sono stati [Papi], [ora] sono emeriti. Dopodomani si celebra il 65° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Ci sarà il suo fratello Giorgio [questa presenza non è stata confermata], perché tutti e due sono stati ordinati insieme. E ci sarà un piccolo atto, con i Capi Dicastero e poca gente, perché lui preferisce… Ha accettato, ma molto modestamente; e anch’io ci sarò. E dirò qualche cosa a questo grande uomo di preghiera, di coraggio che è il Papa emerito – non il secondo Papa – che è fedele alla sua parola e che è un uomo di Dio. E’ molto intelligente, e per me è il nonno saggio a casa.

Padre Lombardi:
Adesso diamo la parola ad Alexej Bukalov, che è uno dei nostri decani e che – come Lei ben sa – rappresenta Itar-Tass, e quindi la cultura russa fra noi.

Papa Francesco:
Ha parlato russo in Armenia?

Alexej Bukalov – Itar-Tass:
Sì, con grande piacere. La ringraziamo sempre… Grazie, Santità, grazie per questo viaggio, che è il primo viaggio sul territorio ex-sovietico. Per me era molto importante seguirlo… La mia domanda va un po’ fuori da questo argomento: io so che Lei ha incoraggiato molto questo Concilio Panortodosso, addirittura all’incontro con il Patriarca Kirill a Cuba è stato menzionato come auspicio. Adesso Lei che giudizio ha su questo – diciamo – forum? Grazie.

Papa Francesco:
Un giudizio positivo! È stato fatto un passo avanti: non con il cento per cento, ma un passo avanti. Le cose che hanno giustificato, fra virgolette, [le assenze] sono sincere per loro, sono cose che con il tempo si possono risolvere. Volevano – i quattro che non sono andati – farlo un po’ più avanti. Ma credo che il primo passo si fa come si può. Come i bambini, quando fanno il primo passo lo fanno come possono: il primo lo fanno come i gatti e poi fanno i primi passi. Io sono contento. Hanno parlato di tante cose. Credo che il risultato sia positivo. Il solo fatto che queste Chiese autocefale si siano riunite, in nome dell’Ortodossia, per guardarsi in faccia, per pregare insieme e parlare e forse dire qualche battuta, ma questo è positivissimo. Io ringrazio il Signore. Al prossimo saranno di più. Benedetto sia il Signore!

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Adesso passiamo il microfono a Edward Pentin, che rappresenta un po’ la lingua inglese: questa volta National Catholic Register.

Edward Pentin – National Catholic Register:
Santo Padre, come Giovanni Paolo II Lei sembra essere un sostenitore dell’Unione Europea: ha elogiato il progetto europeo quando recentemente ha ricevuto il Premio Carlo Magno. Lei è preoccupato del fatto che Brexit potrebbe portare alla disintegrazione dell’Europa ed eventualmente alla guerra?

Papa Francesco:
La guerra già c’è in Europa! Poi c’è un’aria di divisione, e non solo in Europa, ma dentro gli stessi Paesi. Si ricordi della Catalogna, l’anno scorso la Scozia… Queste divisioni non dico che siano pericolose, ma dobbiamo studiarle bene e, prima di fare un passo avanti per una divisione, parlare bene fra di noi e cercare soluzioni percorribili. Io davvero non so, non ho studiato quali siano i motivi perché il Regno Unito abbia voluto prendere questa decisione. Ma ci sono decisioni – e credo che questo l’ho già detto una volta, non so dove, ma l’ho detto – di indipendenza, che si fanno per emancipazione. Per esempio, tutti i nostri Paesi latinoamericani, anche i Paesi dell’Africa, si sono emancipati dalle corone di Madrid, di Lisbona; anche in Africa: da Parigi, Londra; da Amsterdam, l’Indonesia soprattutto… L’emancipazione è più comprensibile, perché c’è dietro una cultura, un modo di pensare. Invece la secessione di un Paese – ancora non sto parlando della Brexit –, pensiamo alla Scozia, è una cosa che ha preso il nome – e questo lo dico senza offendere, usando quella parola che i politici usano – di “balcanizzazione” – senza sparlare dei Balcani! E’ un po’ una secessione, non è emancipazione, e dietro ci sono storie, culture, malintesi; anche tanta buona volontà in altri. Questo bisogna averlo chiaro. Per me sempre l’unità è superiore al conflitto, sempre! Ma ci sono diverse forme di unità; e anche la fratellanza – e qui arrivo all’Unione Europea – è migliore dell’inimicizia o delle distanze. Rispetto alle distanze – diciamo – la fratellanza è migliore. E i ponti sono migliori dei muri. Tutto questo ci deve far riflettere. E’ vero, un Paese [dice]: “Io sono nell’Unione Europea, ma voglio avere certe cose che sono mie, della mia cultura…”. E il passo – e qui vengo al Premio Carlo Magno – che deve fare l’Unione Europea per ritrovare la forza che ha avuto nelle sue radici è un passo di creatività e anche di “sana disunione”: cioè dare più indipendenza, dare più libertà ai Paesi dell’Unione. Pensare un’altra forma di unione, essere creativi. Creativi riguardo ai posti di lavoro, all’economia. C’è un’economia “liquida” oggi in Europa che fa – per esempio in Italia – che la gioventù dai 25 anni in giù non abbia lavoro: il 40 per cento! C’è qualcosa che non va in quell’Unione massiccia… Ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca dalla finestra! Cerchiamo di riscattare le cose e ri-creare… Perché la ri-creazione delle cose umane – anche della nostra personalità – è un percorso, e sempre si deve fare. Un adolescente non è lo stesso della persona adulta o della persona anziana: è lo stesso e non è lo stesso, si ri-crea continuamente. E questo gli dà vita e voglia di vivere, e dà fecondità. E questo lo sottolineo: oggi le due parole-chiave per l’Unione Europea sono creatività e fecondità. E’ la sfida. Non so, la penso così.

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Allora adesso diamo la parola a Tilmann Kleinjung, che è di Adr, la radio nazionale tedesca. Anche per lui credo sia l’ultimo viaggio… Quindi siamo lieti di dargli questa possibilità.

Tilmann Kleinjung – Adr:
Sì, anch’io sono in partenza per la Baviera. Grazie per poter fare questa domanda. “Zu viel Bier, zu viel Wein”. Heiliger Vater, io volevo farLe una domanda: Lei oggi ha parlato dei doni condivisi delle Chiese, insieme. Visto che Lei andrà – fra quattro mesi – a Lund per commemorare il 500° anniversario della Riforma, io penso che forse questo è il momento giusto anche per non ricordare solo le ferite da entrambe le parti, ma anche per riconoscere i doni della Riforma, e forse anche – e questa è una domanda eretica – per annullare o ritirare la scomunica di Martin Lutero o di una qualsiasi riabilitazione. Grazie.

Papa Francesco:
Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore. Forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo, se leggiamo la storia del Pastor, per esempio – un tedesco luterano che poi si è convertito quando ha visto la realtà di quel tempo, e si è fatto cattolico – vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione nella Chiesa, c’era mondanità, c’era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente, e ha fatto un passo avanti giustificando il perché faceva questo. E oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato. Lui ha fatto una “medicina” per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di credere, in un modo di fare, in modo liturgico. Ma non era lui solo: c’era Zwingli, c’era Calvino… E dietro di loro chi c’era? I principi, “cuius regio eius religio”. Dobbiamo metterci nella storia di quel tempo. E’ una storia non facile da capire, non facile. Poi sono andate avanti le cose. Oggi il dialogo è molto buono e quel documento sulla giustificazione credo che sia uno dei documenti ecumenici più ricchi, più ricchi e più profondi. E’ d’accordo? Ci sono divisioni, ma dipendono anche dalle Chiese. A Buenos Aires c’erano due chiese luterane: una pensava in un modo e l’altra in un altro. Anche nella stessa Chiesa luterana non c’è unità. Si rispettano, si amano… La diversità è quello che forse ha fatto tanto male a tutti noi e oggi cerchiamo di riprendere la strada per incontrarci dopo 500 anni. Io credo che dobbiamo pregare insieme, pregare. Per questo la preghiera è importante. Secondo: lavorare per i poveri, per i perseguitati, per tanta gente che soffre, per i profughi… Lavorare insieme e pregare insieme. E che i teologi studino insieme, cercando… Ma questa è una strada lunga, lunghissima. Una volta ho detto scherzando: “Io so quando sarà il giorno dell’unità piena” – “Quale?” – “Il giorno dopo la venuta del Figlio dell’uomo!”. Perché non si sa… Lo Spirito Santo farà questa grazia. Ma nel frattempo bisogna pregare, amarci e lavorare insieme, soprattutto per i poveri, per la gente che soffre, per la pace e tante altre cose, contro lo sfruttamento della gente… Tante cose per le quali si sta lavorando congiuntamente.

Padre Lombardi:
Grazie. Allora adesso diamo la parola a Cécile Chambraud, di “Le Monde”, che rappresenta ancora la lingua francese.

Cécile Chambraud – Le Monde:
(Domanda in spagnolo) Santo Padre, qualche settimana fa, Lei ha parlato di una Commissione per riflettere sulla tematica delle donne diaconesse. Vorrei sapere se già esiste questa Commissione e quali saranno le domande sulle quali rifletterà per essere risolte? E, infine, a volte una Commissione serve per dimenticarsi dei problemi: vorrei sapere se questo è il caso?

Papa Francesco:
C’era un presidente dell’Argentina che diceva, e consigliava agli altri presidenti degli altri Paesi: quando tu vuoi che una cosa non si risolva, fai una commissione! Il primo ad essere sorpreso di questa notizia sono stato io, perché il dialogo con le religiose, che è stato registrato e poi pubblicato su “L’Osservatore Romano”, era un’altra cosa, su questa linea: “Noi abbiamo sentito che nei primi secoli c’erano la diaconesse. Si potrà studiare questo? Fare una commissione?…”. Niente di più. Hanno chiesto, sono state educate, e non solo educate, ma anche amanti della Chiesa, donne consacrate. Io ho raccontato che conoscevo un siriano, un teologo siriano che è morto, quello che ha fatto l’edizione critica di Sant’Efrem in italiano. Una volta, parlando delle diaconesse – quando io venivo, alloggiavo in Via della Scrofa e lui abitava lì – a colazione, mi ha detto: “Sì, ma non si sa bene cosa erano, se avessero l’ordinazione…”. Certamente c’erano queste donne che aiutavano il vescovo; e lo aiutavano in tre cose: la prima, nel Battesimo delle donne, perché c’era il Battesimo per immersione; la seconda, nelle unzioni pre e post battesimali delle donne; e la terza – questo fa ridere – quando c’era la moglie che andava dal vescovo a lamentarsi perché il marito la picchiava, il vescovo chiamava una di queste diaconesse, la quale vedeva il corpo della donna per trovare lividi che provassero queste cose. Ho detto questo. “Si può studiare?” – “Sì, io dirò alla [Congregazione per la] Dottrina della Fede che si faccia questa Commissione”. Il giorno dopo [sui giornali]: “La Chiesa apre la porta alle diaconesse!”. Davvero, mi sono un po’ arrabbiato con i media, perché questo è non dire la verità delle cose alla gente. Ho parlato con il Prefetto della [Congregazione per la] Dottrina della Fede, che mi ha detto: “Guardi che c’è uno studio che ha fatto la Commissione Teologica Internazionale negli anni Ottanta”. Poi ho parlato con la presidente [delle Superiore Generali] e le ho detto: “Per favore, mi faccia arrivare una lista di persone che Lei crede che si possa prendere per fare questa Commissione”. E mi ha inviato la lista. Anche il Prefetto mi ha inviato la lista, e adesso è lì, sulla mia scrivania, per fare questa Commissione. Io credo che si sia studiato tanto sul tema nell’epoca degli anni Ottanta e non sarà difficile far luce su questo argomento. Ma c’è un’altra cosa. Un anno e mezzo fa, io ho fatto una commissione di donne teologhe che hanno lavorato con il Cardinale Ryłko [Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici], e hanno fatto un bel lavoro, perché è molto importante il pensiero della donna. Per me la funzione della donna non è tanto importante quanto il pensiero della donna: la donna pensa in un altro modo rispetto a noi uomini. E non si può prendere una buona decisione, buona e giusta, senza sentire le donne. Alcune volte, a Buenos Aires, facevo una consultazione con i miei consultori, li sentivo su un tema; poi facevo venire alcune donne e loro vedevano le cose con un’altra luce, e questo arricchiva tanto, tanto; e poi la decisione era molto, molto feconda, molto bella. Io devo incontrare queste donne teologhe, che hanno fatto un buon lavoro, che si è però fermato. Perché? Perché il Dicastero per i laici adesso cambia, si ristruttura. E io aspetto un po’ che ciò avvenga per continuare questo secondo lavoro, quello delle diaconesse. Un’altra cosa circa le donne teologhe – e questo io vorrei sottolinearlo –: è più importante il modo di capire, di pensare, di vedere le cose delle donne che la funzionalità della donna. E poi ripeto quello che dico sempre: la Chiesa è donna, è “la” Chiesa. E non è una donna “zitella”, è una donna sposata con il Figlio di Dio, il suo Sposo è Gesù Cristo. Pensi su questo e poi mi dice cosa pensa…

Padre Lombardi:
Allora, dato che ha parlato delle donne, facciamo fare un’ultima domanda ad una donna; dopo, ne faccio una e concludiamo…. Così dopo un’ora La lasciamo in pace. Cindy Wooden, che è responsabile di Cns, che è l’Agenzia cattolica degli Stati Uniti.

Cindy Wooden – Cns:
Grazie Santità. Nei giorni scorsi, il Cardinale tedesco Marx, parlando ad una grande conferenza molto importante a Dublino, sulla Chiesa nel mondo moderno, ha detto che la Chiesa cattolica deve chiedere scusa alla comunità gay per aver marginalizzato queste persone. Nei giorni successivi alla strage di Orlando, tanti hanno detto che la comunità cristiana ha qualcosa a che fare con questo odio verso queste persone. Cosa pensa lei?

Papa Francesco:
Io ripeterò la stessa cosa che ho detto nel primo viaggio, e ripeto anche quello che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: che non vanno discriminati, che devono essere rispettati, accompagnati pastoralmente. Si possono condannare, non per motivi ideologici, ma per motivi – diciamo – di comportamento politico, certe manifestazioni un po’ troppo offensive per gli altri. Ma queste cose non c’entrano con il problema: se il problema è una persona che ha quella condizione, che ha buona volontà e che cerca Dio, chi siamo noi per giudicarla? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo. E’ chiaro il Catechismo! Poi ci sono tradizioni in alcuni Paesi, in alcune culture che hanno una mentalità diversa su questo problema. Io credo che la Chiesa non solo debba chiedere scusa – come ha detto quel Cardinale “marxista” [Cardinale Marx] – a questa persona che è gay, che ha offeso, ma deve chiedere scusa anche ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro; deve chiedere scusa di aver benedetto tante armi… La Chiesa deve chiedere scusa di non essersi comportata tante, tante volte… – e quando dico “Chiesa” intendo i cristiani; la Chiesa è santa, i peccatori siamo noi! – i cristiani devono chiedere scusa di non aver accompagnato tante scelte, tante famiglie… Io ricordo da bambino la cultura di Buenos Aires, la cultura cattolica chiusa – io vengo da là! –: da una famiglia divorziata non si poteva entrare in casa! Sto parlando di 80 anni fa. La cultura è cambiata, grazie a Dio. Come cristiani dobbiamo chiedere tante scuse, non solo su questo. Perdono, e non solo scuse! “Perdono, Signore!”: è una parola che dimentichiamo – adesso faccio il pastore e faccio il sermone! No, questo è vero, tante volte il “prete padrone” e non il prete padre, il prete “che bastona” e non il prete che abbraccia, perdona, consola… Ma ce ne sono tanti! Tanti cappellani di ospedali, cappellani dei carcerati, tanti santi! Ma questi non si vedono, perché la santità è “pudorosa” [ha pudore], si nasconde. Invece è un po’ sfacciata la spudoratezza: è sfacciata e si fa vedere. Tante organizzazioni, con gente buona e gente non tanto buona; o gente alla quale tu dai una “borsa” un po’ grossa e guarda dall’altra parte, come le potenze internazionali con i tre genocidi. Anche noi cristiani – preti, vescovi – lo abbiamo fatto questo; ma noi cristiani abbiamo anche una Teresa di Calcutta e tante Terese di Calcutta! Abbiamo tante suore in Africa, tanti laici, tante coppie di sposi santi! Il grano e la zizzania, il grano e la zizzania. Così Gesù dice che è il Regno. Non dobbiamo scandalizzarci di essere così. Dobbiamo pregare perché il Signore faccia in modo che questa zizzania finisca e che ci sia più grano. Ma questa è la vita della Chiesa. Non si può porre un limite. Tutti noi siamo santi, perché tutti noi abbiamo lo Spirito Santo dentro, ma siamo – tutti noi – peccatori. Io per primo. D’accordo? Grazie. Non so se ho risposto… Non solo scusa, ma perdono!

Padre Lombardi:
Santo Padre, mi permetto di fare io un’ultima domanda e poi La lasciamo andare in pace…

Papa Francesco:
Non mi metta in difficoltà….

Padre Lombardi:
Riguarda il prossimo viaggio in Polonia, a cui stiamo già cominciando a prepararci. E Lei vi dedicherà la preparazione in questo mese di luglio. Se ci dice qualcosa sui sentimenti con cui va verso questa Giornata Mondiale della Gioventù, in questo Giubileo della Misericordia. E un altro punto, un po’ specifico, è questo: noi abbiamo visitato con Lei il Memoriale di Tzitzernakaberd, durante la visita in Armenia, e Lei visiterà anche Auschwitz e Birkenau, durante il viaggio in Polonia. Io ho sentito che Lei desidera vivere questi momenti più col silenzio che con le parole, sia come ha fatto qui, forse anche a Birkenau. Quindi volevo chiederle se ci voleva dire se avrebbe fatto lì un discorso o se preferiva, invece, fare un momento di preghiera silenziosa con una sua motivazione specifica.

Papa Francesco:
Due anni fa, a Redipuglia, ho fatto lo stesso per commemorare il centenario della Grande Guerra. A Redipuglia sono andato in silenzio. Poi c’era la Messa e alla Messa ho fatto la predica, ma era un’altra cosa. Il silenzio. Oggi abbiamo visto – questa mattina – il silenzio…. Era oggi? [P. Lombardi: No, ieri] Io vorrei andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, soltanto i pochi necessari… Ma i giornalisti è sicuro che ci saranno!… Ma senza salutare questo, questo… No, no. Da solo, entrare, pregare… E che il Signore mi dia la grazia di piangere.

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Allora La accompagneremo anche nella preparazione di questo prossimo viaggio e La ringraziamo tantissimo per il tempo che ci ha dedicato. Adesso si riposi un po’, mangi anche Lei… E si riposi anche nel mese di luglio, poi.

Papa Francesco:
Grazie tante! Di nuovo grazie, grazie anche per il vostro lavoro e per la vostra benevolenza.

Viaggio del Papa in Armenia: rassegna stampa completa (dal 23 al 27 giugno 2016)

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>> Visit To The First Christian Nation / Pope Francis (Video) 


 


 




 

Papa: in Armenia come servo del Vangelo, pellegrino di pace

Alla vigila del 14° viaggio apostolico in Armenia, Papa Francesco ha diffuso un videomessaggio. Il Pontefice saluta con affetto il “primo Paese cristiano – come recita il motto del viaggio – che incontrerà tra breve. Il servizio del nostro inviato in Armenia, Giancarlo La Vella:

La grande fede cristiana e l’accorata richiesta di pace. Questi i punti salienti sui quali Papa Francesco incentra il videomessaggio col quale saluta il popolo armeno a poche ore dal viaggio.

“Vengo come pellegrino, in questo Anno Giubilare, per attingere alla sapienza antica del vostro popolo e abbeverarmi alle sorgenti della vostra fede, rocciosa come le vostre famose croci scolpite nella pietra”.

Vengo come vostro fratello – continua il Papa – animato dal desiderio di vedere i vostri volti, di pregare con voi e condividere il dono dell’amicizia. Poi Francesco guarda più da vicino le ferite di un popolo tenace, ma duramente colpito nella sua storia, una storia – dice il Santo Padre – che suscita ammirazione e dolore.

“Ammirazione, perché avete trovato nella croce di Gesù e nel vostro ingegno la forza di rialzarvi sempre, anche da sofferenze che sono tra le più terribili che l’umanità ricordi; dolore, per le tragedie che i vostri padri hanno vissuto nella loro carne”.

Ma è un popolo forte, quello armeno, che ha i mezzi per reagire al dolore e agli assalti del male, sottolinea Papa Francesco. Come Noè dopo il diluvio, di fronte alle difficoltà, anche tragiche, non deve mai mancare la speranza e la voglia di resurrezione.

“Come servo del Vangelo e messaggero di pace desidero venire tra voi, per sostenere ogni sforzo sulla via della pace e condividere i nostri passi sul sentiero della riconciliazione, che genera la speranza”.

Il videomessaggio si conclude con spirito ecumenico: il Papa esprime trepidazione nell’attesa di riabbracciare il Patriarca della Chiesa apostolica armena, quello che lui stesso chiama “il mio fratello Karekin”, e insieme a lui dare rinnovato slancio al nostro cammino verso la piena unità. A conclusione del videomessaggio, un saluto in tradizione puramente armena:

“Grazie e a presto! Tsdesutiun!”.

Una via nel nuovo polo universitario dedicata al primo rettore veronese (Veronasera.it 16.06.16)

Una via nel nuovo polo universitario dedicata al primo rettore veronese

Si è svolta questa mattina, 16 giugno, la cerimonia di intitolazione di una nuova via a Hrayr Terzian, medico neurologo e primo rettore dell’Università di Verona. La via è situata nella nuova area di circolazione, posta tra via Campofiore e via dell’Università, creatasi all’interno della recente lottizzazione caserma Passalacqua.
La targa è stata posta in occasione del 33° anniversario della nomina di Terzian a rettore dell’ateneo scaligero, nel 1983, l’anno successivo al riconoscimento dell’autonomia dell’Università di Verona, avvenuta con il distaccamento dall’ateneo patavino nel 1982.
Presenti alla cerimonia il Sindaco Flavio Tosi, il rettore Nicola Sartor, il vice presidente della Provincia Andrea Sardelli, l’assessore ai Servizi demografici Alberto Bozza, la presidente della 1ª Circoscrizione Daniela Drudi, il presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia Minas Lourian, l’autrice delle memorie biografiche di Terzian Antonia Arslan, la vedova di Terzian Giuliana Ferri con la figlia Emanuela, oltre a numerosi rappresentanti delle istituzioni civili e religiose cittadine.

“La scelta di dedicare una via, all’interno di quello che sarà il campus della nostra Università, a uno dei padri fondatori del nostro prestigioso ateneo è più che mai appropriata – ha detto il Sindaco – un riconoscimento doveroso anche nei confronti della comunità armena presente a Verona e in Italia, una comunità che mantiene salde le proprie radici e, nonostante le vicissitudini passate, ha saputo imporsi per capacità ed intelligenza”.
Il rettore Sartor ha espresso “gratitudine all’Amministrazione comunale per aver proposto questa intitolazione che onora la nostra Università e testimonia il l’interazione e la positiva collaborazione tra l’ateneo e la città”. Sartor ha ricordato Hrayr Terzian come “un rettore che ha investito completamente la propria energia, il proprio entusiasmo e la propria lungimiranza a servizio dell’Università, facendola decollare verso quei progressi che fanno del nostro ateneo un punto di riferimento a livello nazionale”.
L’assessore Bozza ha sottolineato “lo sforzo, in questa fase di nuove intitolazioni, profuso dall’Amministrazione nel cercare di cogliere gli aspetti storici e civici più significativi per la nostra città, da legare alle moderne urbanizzazioni e riqualificazioni”.

CHI ERA HRAYR TERZIAN – Hrayr Terzian nacque ad Addis Abeba il 18 agosto 1925. Fu medico neurologo, professore di clinica neurologica, nonché direttore dell’istituto di neurologia. Figlio di armeni rifugiati in Etiopia durante la prima guerra mondiale in seguito al massacro e alla cacciata che la popolazione di quell’etnia subì dai turchi, ancora adolescente si trasferì in Italia per studiare presso il Collegio degli armeni a Venezia. Nel 1948 si laureò a Padova e iniziò a frequentare la clinica neurologica diretta da uno dei maggiori neurologi del Novecento, Giovanni Battista Belloni. La sua preparazione scientifica si arricchì a Londra nel reparto neurologico del National Hospital, a Marsiglia, dove apprese le frontiere più avanzate della neurofisiologia mondiale. La sua carriera universitaria iniziò a Padova come assistente, poi professore a Cagliari nel 1966 per approdare a Verona nel 1970 quando la facoltà di medicina era ancora un distaccamento dell’ateneo patavino. Fu insignito di alcuni premi, ottenne la presidenza della Società italiana elettroencefalografia e di neurofisiologia (1965 – 1968), fece parte – nel comitato scientifico – di importanti riviste internazionali. Nei diciotto anni della sua direzione, l’istituto di neurologia di Verona ha raggiunto una strutturazione moderna ed efficiente, acquisendo capacità di elaborazione culturale e di ricerca, che ne hanno permesso l’affermazione in ambito nazionale e internazionale; fu tra i primi a riflettere sulla gravità del fenomeno della tossicodipendenza, analizzandone cause e conseguenze sociali e organizzando in Clinica un centro di studio e assistenza per tossicodipendenti. Fu uomo attento agli aspetti sociali e politici della pratica medica; fondamentale fu l’incontro con Franco Basaglia con cui lavorò per la riforma della moderna psichiatria, ponendo al centro dell’agire medico il rispetto per il malato. Quando, nel 1982, l’Università di Verona divenne autonoma, ne fu il primo Rettore, capace di una visione progettuale della ricerca che fece la fortuna del neonato Ateneo. All’inaugurazione del primo anno accademico volle la presenza di Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica. Nella sua instancabile attività si è battuto per il ruolo centrale dell’Università come luogo di elaborazione e diffusione del sapere, come comunità plurale nella quale si creano e si consolidano le basi del progresso culturale, tecnico, scientifico e sociale. Hrayr Terzian scomparve a Verona, per un aneurisma, nel 1988.

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Intitolata una strada al primo rettore: è Via Terzian (L’Arena 16.06.16)

Lettera del Consiglio per la comunità armena di Roma all’Ambasciata Tedesca

Il Consiglio per la comunità armena di Roma esprime, attraverso codesta rappresentanza diplomatica, la più profonda gratitudine ai membri del Bundestag tedesco, per il coraggio e la determinazione con i quali hanno approvato la risoluzione sul genocidio armeno, riconoscendone la validità storica e rendendo omaggio alla Memoria del milione e mezzo di armeni che hanno perso la vita in quel che viene definito il “primo genocidio del XX secolo”.

Il Consiglio per la comunità armena di Roma nel contempo auspica che questo ulteriore riconoscimento sia d’incoraggiamento a tutta la società civile turca per cominciare a fare i conti con la propria storia e con il proprio passato in modo da poter guardare ad un futuro più sereno e costruttivo.

Auspichiamo altresì che il governo turco rinunci, una volta per sempre, alla politica negazionista che offende non solo la memoria dei morti ma anche la dignità di un popolo. Poiché la negazione non è altro che l’ultimo atto di un genocidio.

Consiglio per la comunità armena di Roma